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Guarda come mangio e ti dirò chi sono, disse il leader

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salvininutellaPer decenni, i politici vissero d’aria. Almeno, sulle pagine dei giornali.

Ricordo bene, tornando con la mente a quando ero cronista politico in servizio permanente effettivo, la mastina sorveglianza degli addetti stampa dei più noti personaggi della scena politica nazionale, prima e seconda Repubblica, contro ogni tentativo dei fotogiornalisti di sorprendere i loro leader a tavola, o anche solo mentre addentavano una tartina, un bigné a qualche buffet, per non dire del leccare un cono gelato.

I politici, in fotografia, non mangiavano mai.

C’era una ragione, e non so dare torto a quei miei colleghi dell’altra sponda della barricata. La fotografia, per questo uno scultore come Auguste Rodin la disprezzava, blocca i movimenti dell’uomo in pose a mezz’aria, quasi sempre sgraziate, pericolosamente comiche. Una bocca aperta, la smorfia di una masticazione-deglutizione, diocenescampi lo sbaffo di maionese sul labbro… no, no, una foto così avrebbe potuto essere usata per mettere in ridicolo la sua vittima, magari ripescata fuori tempo e fuori contesto, che so, messa accanto a notizie drammatiche… Tipo guarda, ci sono mille sfollati per il terremoto e lui è lì che sbafa felice e contento…

ForchettaMa c’era, io credo, anche una motivazione più recondita, di ordine simbolico, in quella censura preventiva. Dire che un politico “ci mangia”, è evidente a chiunque, non significa che sta nutrendo il corpo, ma che sta ingrassando il portafoglio, in maniera illecita e corrotta.

Non so a quando risalga questa torsione metaforica di una normale funzione corporale, ma so per certo quale fu la sua stagione dorata: fine anni Quaranta, inizi Cinquanta, quelli della infuocata competizione tra la Dc e il Pci. Allora erano i comunisti a chiamare “mangioni” i governi scudocrociati e i loro ministri. I manifesti elettorali del Pci invocavano Via il regime della forchetta, canzoncine satiriche (Con De Gasperi nun se magna…) contrapponevano la fame del popolo lavoratore postbellico al magna-magna della nuova classe politica nazionale.

Quando è accaduto, dunque, che i politici italiani hanno cominciato non solo a lasciarsi fotografare mentre comprano una pizza nel cartone ma a fotografarsi da soli e a diffondere sui social i propri selfie mentre addentano forchettate di bucatini o pane e Nutella? Quand’è successo che al parla come mangi si è sostituito il mangio come parlo?

Anche qui, credo che la risposta, almeno la più semplice, non sia difficile da trovare. È il populismo, ragazzi, e non possiamo farci nulla.

L’immagine del leader politico è stata radicalmente rovesciata dalla retorica (ingannevole come un hamburger di soia) dell’uno-vale-uno, dei governi del popolo eccetera.

Io sono uno di voi, proclama il leader affondando le fauci nel panino. Io sono voi. Io-voi. Sempre più stretto l’abbraccio. Voi mangiate, no? Anche io. Voi vi fate i selfie mentre mangiate, no? Anche io. Abolire la distanza. Creare l’identificazione. La sovrapposizione.

Mangiare è proiettare l’immagine dei precedenti leader digiunanti nella luce improvvisamente vetusta della kasta disumana, distaccata dalla vita vera.

Era già successa una cosa del genere quando i politici improvvisamente cominciarono a ridere. A ridere nelle fotografie, intendo. Negli Stati Uniti, la galleria dei ritratti ufficiali dei presidenti somiglia a un corteo funebre. Nei medaglioni del potere, il condottiero deve avere un contegno, deve assumere la posa di chi sta pensando grandi cose, lo sguardo laterale e un po’ girato verso l’alto di chi vede il futuro lontano, le labbra serrate dalla determinazione e la fronte corrugata dalla volontà. Potete trovare qualche foto in cui Abraham Lincoln sembra stirare le labbra al sorriso, ma potete stare sicuri che non furono quelle che gli fecero più comodo e piacere.

Poi, improvvisamente, gli americani si trovarono davanti un presidente che sorrideva, Anzi no, rideva proprio, sghignazzava, a bocca aperta e denti in mostra.

LeslieRooseveltSi chiamava Theodore Roosevelt e fu eletto nel 1901. Repubblicano conservatore, ebbe una passione per le tecnologie (fu il primo presidente a muoversi in automobile, a volare su un aereo, a immergersi con un sottomarino) e un precocissimo intuito per il potere dei media. La sua risata contagiosa, immortalata in una fotografia celebre, fu usata per la copertina del Leslie’s Illustrated nel 1916: la sua testa ridente bucava letteralmente la prima pagina del settimanale. Da allora, pressoché tutti i presidenti americani costruirono, coltivarono e usarono come un brand il loro specifico sorriso: pensate solo a Ronald Reagan.

Perché lo fecero? Teddy Roosevelt fu contemporaneo ad una svolta epocale nell’iconosfera privata e pubblica: l’affermazione dell’era Kodak. Il sistema (non solo fotocamere economiche ma anche e soprattutto il servizio di sviluppo e stampa) che metteva alla portata di tutti la produzione di fotografie. Che fece della fotografia, per la prima volta, un medium orizzontale, autogestito, popolare, in grado di arricchire la vita privata.

Bene, l’ideologia Kodak si reggeva su una potentissima, fortunatissima identificazione fra la fotografia e la felicità. La felicità familiare, personale, degli affetti privati: che diventò un dovere immortalare negli album, per la presente costruzione dell’unità familiare e la futura memoria della prole. Fu l’era Kodak a imporre il sorriso come comportamento d’ordinanza, necessario, appropriato davanti all’obiettivo delle fotocamere: say cheese! Fu l’ordine, lo squillo di tromba che metteva sull’attenti i muscoli facciali, fino a quando la reazione non si incarnì nelle abitudini spontanee, diventando reazione pavloviana. I politici (Teddy Roosevelt in realtà era molto in anticipo sui tempi: ci fu ancora spazio per leader dalle pose drammatiche, i dittatori del Novecento) si adeguarono a un atteggiamento che consentiva loro di farsi aprire la porta di casa dall’americano medio.

Avrei altre cose da dire sul sorriso dei politici ma vorrei tornale al cibo. La digressione mi è servita per dire che la fotografia è un potente creatore di maschere sociali, che la politica può indossare se e quando decide di fingere di sciogliersi nel popolo. Che oggi i selfie delle nuove kaste populiste siano in realtà confezionati artificiosamente da team di comunicatori, altro che spontaneità, non sembra interessare a nessuno. Siamo, in fondo, anche l’età delle apparenze, e delle fake news. Crediamo che che ci oiace credere, ci rassicura, ci nutre.

Eppure, come sempre, cerco di non accontentarmi della prima spiegazione. Vado un po’ indietro con qualche buona lettura e ricordo celebri studi storici sull’uso del corpo da parte dei potenti (il capostipite e capolavoro I due corpi del re di Ernst Kantorowicz).

Nell’età classica, i sovrani non godevano di alcuna privacy. Gli atti corporali della loro vita quotidiana si svolgevano di fatto sotto gli occhi di decine di persone, quando non venivano addirittura esplicitamente organizzati come cerimonie rituali (il lever du roi di Luigi XIV). Così, come il risveglio del sovrano era una specie di nuova alba della nazione intera, rinnovata ogni giorno, anche l'esibizione pubblica del suo pranzo era una allegoria politica. Il re era simbolicamente il corpo della nazione: la sua manutenzione, il suo buon ingrassamento interessavano tutti.

Ehi, ehi, ma allora. Siamo proprio sicuri sicuri che quando un ministro ci mostra ossessivamente che cosa mangia, con chi va a letto, come si veste, lo faccia solo nel tentativo di suggerire una identificazione con i suoi sostenitori, con la gente comune con il mitologizzato popolo?

E se invece, dietro questa apparente democratizzazione della propria vita privata, il nuovo sovrano populista tornasse a pescare in quello scenario simbolico in cui il suo corpo diventa una sacrale allegoria, un corpo mistico, il corpo del Capo (qualcosa del genere, ma con altre strategie, lo fece in realtà prima ancora Silvio Berlusconi, come ci ha raccontato Marco Belpoliti in un bel libro)?

Pensiamoci bene. Cosa ci sta dicendo quel signore che cinguetta ogni giorno sui nostri display le sue piccolezze private? Probabilmente non sta affatto dicendo vedete?, io sono come voi. No no. Molto più verosimilmente sta dicendo vedete?, voi somigliate vagamente a me, anche voi mangiate come me, perché io vi ho creato a mia immagine e somiglianza. Adoratemi.


Ti condanno alla pena di guardare

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Figlio di Giove e di Plutide, ambizioso re di Lidia, Tantalo sfidò gli dei rubando loro l'ambrosia, il cibo celeste, allo scopo di eguagliarli.

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Nell'oltretomba la sua punizione fu severa: affamato, assetato, costretto a contemplare la visione di rami carichi di frutti succulenti che il vento gli spingeva lontano non appena cercava di afferrarli.

Il supplizio di Tantalo è atroce e raffinatissimo. Un mito classico che fa uso della vista come punizione, inventando l'idea della tortura psicologica. Con una perspicacia che sfida i secoli, i mitografi immaginarono uno sguardo amputato dal corpo, per scoprire che la vista è desiderio, e il desiderio senza appagamento è tormentoso. Capirono che la vista pura impazzisce.

C'è un libro che ci guarda con due occhietti che si muovono proprio due pupille nere in orbite di plastica incastrate nella copertina: una trovata editoriale un po' da libri per bambini, ma efficace.

Mark Cousins, autore di una poderosa ma leggibilissima e illustratissima Storia dello sguardo è un uomo di immagini: critico cinematografico e lui stesso regista. La sua corsa attraverso i secoli è quel che annuncia il titolo, un tentativo ambizioso di raccontare l'evoluzione antropologica, sociale, culturale non della vista, non di un senso o di un organo, ma dello sguardo, che sta alla vista come il gesto della mano sta al tatto: non un recettore passivo ma un atto consapevole di relazione tra il corpo e il mondo.

La teoria che sta alla base del libro è che lo sguardo crea gli oggetti che guarda. Li crea come oggetti guardati e degni di sguardo, ne stabilisce la gerarchia, la funzione, la storia e il destino. Poteva essere solo una storia delle cose guardate, invece è un libro intelligente sullo sguardo che cambia le cose.

Eppure, per quanto alla fine il giudizio su colpee meriti dello sguardo, tante volte tenuto in sospetto dalla storia, dalle religioni, dal potere, sia ampiamente assolutorio (vedere è bello, vedere è giusto), l'autore non si sottrae al lato oscuro della visione.

E qui penso proprio a quel rovesciamento del piacere di guardare (scopofilia) su cui si regge gran parte della civiltà contemporanea, che è l'uso della vista come punizione.

Due immagini pescate dal libro. Una immaginaria ma profetica. L'altra terribilmente reale e storica.

Prima immagine. Arancia meccanica, film di Stanley Kubrick che può a buon diritto rientrare nella mitografia contemporanea. Ricorderete benissimo in cosa consiste la "cura Ludovico" a cui Alex, il violento capo della banda dei Drughi, viene sottoposto per essere "rieducato": al suono della Nona di Beethoven, viene costretto a guardare scene di film violentissimi.

Costretto fisicamente: pinze gli impediscono di chiudere le palpebre. La visione della violenza di cui si era nutrito fino a quel momenti diventa intollerabile quando Alex viene derubato del potere sul suo proprio sguardo.

Buchenwald

Seconda immagine. Campo di sterminio nazista di Buchenwald, primavera del 1945. I buoni cittadini dei villaggi vicini vengono fatti sfilare, per ordine del generale Patton, accanto alle pile di cadaveri di internati. In una celebre fotografia di Margaret Bourke-White, un uomo distoglie lo sguardo, una donna crolla in lacrime. Militari sorvegliano il percorso penitenziale obbligato. La morale della pena è semplice e atroce: facevate finta di non vedere, ora guardate.

Pochi mesi dopo, il tribunale di Norimberga fu organizzato come una sala di proiezione: anziché la Corte,  collocata su un lato della sala di udienze, sul banco principale troneggiava uno schermo cinematografico. Gli imputati erano fatti sedere in modo da essere costretti a guardare i filmati che documentavano il massacro industriale di vite umane.

Nella sala oscurata, una lampadina sul capo di ognuno rendeva visibile il loro volto. Puniti due volte a mezzo di sguardo: dovevano vedere, ed essere visti mentre vedevano.

Lo sguardo ci rende padroni del mondo. Il mondo può renderci schiavi del nostro sguardo. Credo valga non solo per le punizioni visuali come le due degli esempi qui sopra.

Ogni cosa che guardiano viene influenzata dal nostro sguardo, e ci influenza attraverso lo sguardo. C'è sempre un vettore nascosto, che viaggia in senso inverso alla direzione del potere di sguardo che crediamo di gettare sul mondo.

"Gran parte dello sguardo umano si posiziona nella categoria del parzialmente positivo", è la morale di Cousins.

Sono abbastanza d'accordo. Pur di non scordare il lato oscuro. La faccia invisibile dell'occhio. Il risvolto feroce della visione.

La fotografia non è la più potente tra le immagini

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Quel rosso è mattone grattato, sì, la guida gentile e esauriente me lo spiega, ma ci sarei arrivato da solo.

F9AA7555-941A-49D4-B083-8F1E9450FA96Ma mi spiega pure che il mattone bisognava mescolarlo con un liquido, affinché facesse pasta che rimanesse appiccicata all'intonaco.

E i liquidi che un prigioniero dell'inquisizione poteva trovare nella sua cella priva di tutto, be', spesso venivano dal suo stesso corpo, e questo è più difficile da immaginare. E da sopportare.

Non sono le grida di dolore e di rabbia delle vittime, non sono le beffarde caricature degli aguzzini, non è l'inaspettata bellezza di un volto o di una figura che mi hanno scosso nel profondo dell'animo quando mi sono trovato al cospetto delle "parole prigioniere" sulle pareti di Palazzo Steri, oggi rettorato dell'Università di Palermo, mezzo millennio fa sede dell'Inquisizione spagnola in Sicilia.

Tracciate nel corso dei primi tre secoli di quello che insistiamo a chiamare evo moderno. Rimaste poi ignorate per quasi altrettanti. Le scoprì e le salvò un secolo fa un grande precursore della ricerca etnografica, Giuseppe Pitré. Ma vederle oggi, almeno a primo acchito, vi avverto, non rende.

Quelle celle infami coperte di "urla senza suono" come le definì Leonardo Sciascia che vi ambientò il suo Morte dell'inquisitore, sono oggi salette luminose ampie e pulite. Difficile immaginare com'erano quando ci si stipavano venti o trenta prigionieri, al buio, sul pavimento coperto da ogni sorta di melma indicibile.

A fatica si riesce a capire come quei reclusi, spesso per anni, spesso destinati a uscirne solo da morti, o dopo un autodafé strappato con la tortura, trovassero la forza per istoriare le pareti con lamenti, poemi, preghiere, disegni di santi, caricature, allegorie (come il terrificante Leviatano che inghiotte in un boccone tutti i padri della Chiesa, tracciato da un ignoto don Leonardo). La cui qualità spesso rivela la cultura e l'arte dei perseguitati, eretici, ecclesiastici, infedeli, negromanti, ebrei, oppositori politici.

Cosa li spingeva (tanto per rubare il titolo di una celebre performance di Franco Vaccari) a lasciare su quelle pareti una traccia del loro passaggio? Noia, rabbia, disperazione, desiderio di lasciare memoria di sé? Mi sono già fatto questa domanda di fronte ad altri graffiti.

Ma questi hanno una cosa in più. La natura del loro pigmento. Rosso, dal mattone grattato, nero dal carbone tritato. Ma amalgamati con tutto quello che un prigioniero poteva secernere di liquido. Urina, feci, saliva, sudore, forse lacrime. Per le donne, sangue mestruale. Le analisi chimiche lo hanno confermato.

Penso alle mani delle grotte di Altamira e Puente Viesgo, di venticinque millenni fa: hanno gli stessi colori. Forse anche le stesse ragioni: lasciare una traccia del proprio corpo nei luoghi dove quegli umani vissero. Sono in effetti le prime manifestazioni di quella particolare, ignorata o censurata "arte dell'impronta" di cui ci ha detto tante cose Georges Didi-Huberman.

71F95A31-41D5-4B96-8BFD-FCB9643C37FAMa qui a Palermo gli inquisiti andarono ben oltre l'impronta. Quelle figure non sono solo una traccia impressa dal corpo, attraverso un pigmento. Sono prodotte con un pezzo del corpo. Incorporano un pezzo di corpo. È un pezzo di corpo che vediamo. È il corpo stesso che si fa segno e immagine.

Come se gli autori di quei messaggi destinati non si sa a chi, ma comunque destinati a qualcuno (si scrive perché si legga, si disegna perché si guardi), destinati di fatto a noi che oggi li vediamo, volessero dirci: è il mio corpo che soffre, è il mio corpo che grida vendetta, non stai solo leggendo i miei pensieri, guardando le mie fantasie, sei di fronte alle mie membra. Che non parlano: sono.

Quei graffiti non sono semplici testimonianze. Magari di noia, ma neppure di strazio. Sono idoli resistenti. Sono reliquie accusatrici. Contengono materialmente la prova stessa di quel che denunciano: lo strazio del corpo.

Le fotografie, arte dell'impronta come le maschere di cera, ci sembrano tanto potenti perché impresse dalla realtà stessa (a ragione, o scientificamente a torto, non importa: sono considerate impronte dirette e hanno funzionato come tali).

Ho sempre pensato che quella magica efficacia fosse insuperabile. Nelle celle di palazzo Steri per la prima volta ne ho dubitato. Questi graffiti  non solo tracciati dal corpo, ma formati col corpo, consustanziali al corpo, sono stati per me molto, molto più potenti.

Non ho solo visto l'impronta di corpi, ho visto i corpi veri e propri. Eppure le immagini di quelle celle non sono certo più realistiche di quelle delle fotografie.

Credo voglia dire che la pura e semplice verosimiglianza delle immagini fotografiche non è la radice della loro potenza di evocazione della realtà. Lo è la loro essenza materiale di impronte.

Ma allora l'essenza di deposito corporale di quei graffiti la supera, proprio come la magia per contatto, ci spiegò Mauss, supera in potenza la magia per somiglianza.

No, lo dico un po' a malincuore forse. La fotografia non è l'immagine più potente che l'uomo abbia saputo creare.

Forse solo la sofferenza estrema, però, poteva crearne una più potente. Francamente, dunque, l'umanità poteva farne a meno.

Corpi gloriosi e ingloriosi. La fotografia sopra la pelle

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Nell'Ottocento, qualcosa come tre quarti delle fotografie erano ritratti. Non saprei dire quante delle fotografie di oggi siano selfie e assimilabili, ma la quota non deve essere indifferente.

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Koto Bolofo: Black Beauty, 2008. © Koto Bolofo, g.c.

Credo sia sufficiente questa chiusura del cerchio per affermare che la fotografia ha nutrito per il corpo umano non un interesse, non una predilezione, ma una ossessione. Fra i due fuochi della parabola, ovviamente, non ci sono stati solo paesaggi e nature morte. Il fotogiornalismo, paradigma fotografico del Novecento, si interessava soprattutto di corpi.

Un volume dedicato alla relazione fra corpo e fotografia rischia dunque di coincidere con la storia stessa del medium, e in effetti le dimensioni di questo Il corpo nella fotografia contemporanea di Nathalie Herschdorfer lo fanno intuire. Lo sforzo è enorme, richiede selezioni, e le selezioni parlano. Questa selezione, in particolare, sembra dirci molto meno sulla relazione fra corpo e fotografia che sull'idea che del corpo ha la nostra epoca.

I corpi trasformati in immagini che questo compendio compendia non sono corpi ordinari, non sono corpi quotidiani. Oserei dire che ricadono quasi tutti in una di queste due categorie, quella di corpi gloriosi (gli ultracorpi della moda, della bellezza, della pubblicità) e quella dei corpi infami (i copri piegati e piagati della performance artistica, i corpi martoriati della manipolazione estetica, i cyber-corpi meccanizzati della tecnologia).

Del resto, la scelta della curatrice è chiara:"la fotografia diventa la testimonianza delle metamorfosi, reali e imamginarie, alle quali il corpo contemporaneo potrà essere soggetto lungo tutta la vita". Corpi teatralizzati, mutanti, deformati, smembrati, sublimati e trascesi.

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Alix Marie: Ice Burn, 2017. © Alix Marie, g.c.

Corpi estremi, dunque, e la scelta ha una sua logica: sotto stress, i concetti rivelano i loro segreti inconfessabili, proprio come i colpevoli sotto l'interrogatorio di terzo grado.

Ma questo, appunto, significa pensare il corpo umano in una dimensione di colpevolezza, o comunque di sospetto, o comunque di diffidenza, o comunque di tensione. Il corpo rappresentato mette a disagio. La rappresentazione del corpo contemporaneo è una rappresentazione di disagio.

Tutto sommato, credo ci sia del vero. Ma dovremmo porci il problema come patologia, non come una celebrazione. L'assalto al corpo è rivendicato come una presa di possesso della mente libera sulla materialità della natura: così nell'opera di Orlan, forse la più importante artista "corporale" del presente.

Michela Marzano però ha dimostrato a sufficienza che quell'assalto al corpo, modificato, alterato, martoriato, perfino umiliato, ribalta la libertà in disprezzo per il corpo magari imperfetto che ci è semplicemente toccato in sorte, e si schiera paradossalmente dalla stessa parte dell'ideologia mercantile che impone a tutti i corpi (quelli femminili soprattutto) modelli di perfezione irraggiungibili e frustranti.

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Paul Mpagi Sepuya: Nirror Study for Joe, (_2010980). © Paul Mpagi Sepuya, g.c.

Esaltare e disprezzare il corpo, estremizzandolo, sono due facce della stessa anti-medaglia conformista. Un volume pieno di super-corpi, performanti o vittimizzati, esaltati o vilipesi non fa molto differenza, mette in ombra un'altra dimensione dell'immagine umana che tendiamo a sottovalutare.

Ed è questa, che l'esercizio del potere oggi passa anche per l'immagine di corpi per nulla esemplari o gloriosi. Il corpo dei politici, oggi, è la scena di una efficiente strategia del consenso, e lo è proprio grazie alla fotografia, a quello che è oggi la fotografia.

I selfie twittati dai politici demagoghi sfruttano il linguaggio della familiarità condivisa dei social per suggerire una sovrapposizione illusoria: guardatemi, io sono come voi. Infatti è un corpo quotidiano, non eroico, non stentoreo, non monumentale quello che i politici demagoghi offrono alla condivisione.

Allora, un dubbio. Lo spettacolo dei corpi estremi di cui la fotografia contemporanea si ciba in modo ingordo, non rischia di essere un grande distrattore, uno spettacolo subline (bello e orrido assieme) che si distoglie dal farci domande sul potere (praticato, subìto) dei corpi reali, ordinari, "normali"?

Come in quel film della fantascienza cripto-politica delgli anni della Guerra fredda, l'invasione degli ultracorpi, gli alieni non ci domineranno terrorizzandoci con la loro marziana spaventosità, ma si presenteranno con l'aspetto ordinario del nostro vicino di casa.

Le altre vite di Al, che all'alba era Alison

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Un’alba di aprile che non brillò per nessuno. Solo per lei, April Dawn Alison.

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April Dawn Alison, Untitled, n.d.; San Francisco Museum of Modern art, gift of Andrew Masullo. Courtesy of SFMOMA and MACK

Che poi neppure sappiamo se fosse l’alba, quando faceva quelle foto. Quasi sempre sono interni di casa, con la luce artificiale, le finestre chiuse perché nessuno spiasse dentro.

Per più di trent’anni, probabilmente ogni giorno, Alison si vestiva con minigonne, calze a rete, guepière, o banali abiti da casalinga, o da signora-bene, e si faceva autoritratti. Con la Polaroid.

Centinaia. Migliaia di autoritratti. Che non fece vedere a nessuno. Mai, fino alla sua morte, undici anni fa.

Perché tutti quelli che la conoscevano non l’avrebbero riconosciuta così.

Alison è stata una donna nascosta in un corpo di uomo. Come tanti transgender della sua epoca, non lo rivelò a nessuno.

Nella vita pubblica si chiamava Alan Schaefer, per gli amici Al, e fu per tutta la vita un apprezzato fotografo commerciale di Oakland, California.

Nato nel Bronx, ex fotografo militare, poi specializzato in foto pubblicitarie. Stimato dai clienti, amato dagli amici e dai parenti. A nessuno dei quali svelò mai la verità.

Dopo la sua morte, nel 2008, a 67 anni di età, il materiale dello studio fu venduto. Ma quando il curatore dell’eredità si imbatté in quelle quattordici scatole di cartone, e per dovere d’inventario le aprì e guardò cosa c’era dentro, restò interdetto.

Erano 9200 fotografie, tutti autoritratti di una sola persona. Quella persona non era Al. Era April Dawn Alison, “Alison alba d’aprile”, la sua seconda nascosta identità. La cui firma a matita rossa compariva su alcuni cartoncini, e qualche volta in un cartello fotografato assieme a lei.

Oltre novemila performance solitarie e segrete, una recita lunga decenni, un burlesque rutilante di costumi, una commedia con centinaia di personaggi, dalla più casta housewife alla più provocante spogliarellista, migliaia di pose dalle più ingenue alle più sguaiate…

L’altra vita che non poté mai vivere in pubblico, neppure lì, nella California dei movimenti di liberazione sessuale. Le mille altre vite che avrebbe potuto vivere se lo stigma sociale non glielo avesse preventivamente, crudelmente vietato.

Esistono anche liquidatori intelligenti, sensibili, coscienziosi. Quel funzionario capì che lì c’era qualcosa di importante. Mostrò l’archivio a un pittore di San Francisco, Andrew Masullo, che accettò di comprarlo. E che poi, generosamente, lo donò allo SfMoMa, il museo di arte moderna di San Francisco. Dove da pochi giorni, sono oggetto di una mostra. E di un volume imperdibile.

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April Dawn Alison, Untitled, n.d.; San Francisco Museum of Modern art, gift of Andrew Masullo. Courtesy of SFMOMA and MACK

Una decisione difficilissima da prendere. Perché non c’è solo il dubbio di qualsiasi curatore di mostre con inediti: e cioè se l’autore avrebbe scelto questa o quell’altra immagine, quali avrebbe considerato valide e quali da scartare.

No, in quelle quattordici scatole c’era l’esistenza di una persona, l’identità che quella persona aveva deciso di tenere solo per sé. Benché qualche interrogativo sulle sue propensioni sessuali fosse circolato quand’era in vita, nessuno tra amici e parenti vide mai Al in abiti femminili.

Tranne qualche raro caso, alcune foto sulla veranda di casa, sembrano tutte recite accuratamente tenute al riparo dalla curiosità del mondo. È stato giusto violare quella scelta, dopo la sua morte? È giusto questo outing postumo?

Il curatore Erin O’ Toole ha riflettuto. Ha discusso con intellettuali della cultura Lgbtq. Scoprendo la loro emozione, a volte la loro commozione di fronte a quell’esplosione di vita compressa in un rettangolo di carta. E alla fine ha deciso di sì, che si poteva, forse perfino che si doveva.

Adesso, che si scatenino pure i critici. A cercare corrispondenze, echi, riferimenti, assonanze. Alison conosceva le polaroid en travesti di Andy Warhol? Conosceva le mille personalità immaginarie di Cindy Sherman? Conosceva il teatrino funambolico e posticcio di Samuel Fosso? Conosceva magari Claude Cahun, pioniera della fotografia come liberazione dell’identità di genere?

Nella sua esistenza pubblica era un fotografo, dopo tutto, avrà sfogliato riviste, avrà avuto una sua cultura dell’immagine. Le foto d’autore appese alle pareti dei suoi set lo dimostrano.

Ma è proprio questo che conta? L’arte deve per forza mangiarsi sempre tutto, con la sua bulimia imperialista? Deve per forza metabolizzare sempre la vita in opera?

Qui si parla di fotografia, signori e signore. Di quel che la fotografia sa fare con, per, delle, alle nostre vite. Alla vita di Al/Alison, in questo caso. Cosa furono, per lui/lei, quelle sedute di autoscatto? Una liberazione? Una prigione? Un giardino di delizie? Un giardino di tortura?

Intanto, finiamola con questa ginnastica politicamente corretta del doppio pronome. In quelle foto è lei, non lui. Punto. Orgogliosa del suo corpo, perfino vanitosa delle sue belle gambe.

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April Dawn Alison, Untitled, n.d.; San Francisco Museum of Modern art, gift of Andrew Masullo. Courtesy of SFMOMA and MACK

Certo, il tempo passa anche per lei. Ride spesso, quando il personaggio del giorno non la obbliga a mimare languori o sfrontatezze. Ma cosa c’è nel suo sguardo? Gioia? Disperazione?

Fermiamoci: la scena fotografica non è l’ambulatorio dello strizzacervelli. È un palcoscenico. Serve lo sguardo dello spettatore, non quello dello psicanalista. Ma chi è lo spettatore della infinita performance di Alison?

Facile: lei stessa. No, non così facile. Lei o lui? Qui la distinzione è appropriata e la risposta non è scontata. Chi voleva sedurre, divertire, scandalizzare Alison?

Forse Al. Il suo alter ego maschile, autorizzato, pubblico. Per vendicarsi di lui, padrone del suo corpo? Per prendersi una rivincita gustandosi il suo sconcerto?

Eh, ma non è finita qui. Non c’era solo una persona in quei set occulti. Neppure due in una sola. Ce n’è una terza. Meccanica. La fotocamera.

Curioso: Alison sceglie le Polaroid, sembra facile da spiegare perché: sono da sempre le foto degli auto-pornografi, non c’era bisogno di portarle a sviluppare al laboratorio all’angolo.

Eh, ma Al era un fotografo: avrebbe potuto stamparsele da solo, se fossero state negativi. Bisogna dedurne che scelse le Polaroid perché, appunto, erano cariche di quel significato sociale, di teatro dell’erotismo privato.

Che non è mai del tutto privato, perché, come la storia di Alison dimostra, le persone muoiono ma le fotografie sopravvivono, e finisce che qualcun altro le vedrà, e Alison lo sapeva benissimo, e se non le ha buttate significa che non voleva che la sua identità autentica morisse assieme al suo corpo.

Allora, Alison recita per noi. Per gli spettatori che avrebbero compreso quel che i suoi contemporanei non potevano o non volevano comprendere. Un coming out differito.

L’inizio di un giorno migliore, di una nuova e libera stagione, come un’alba di aprile.

[Una versione di questo articolo è apparsa su Il Venerdì di Repubblica il 19 luglio 2019]

HCB, di mano in mano

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È in edicola Henri Cartier-Bresson, terzo volume della serie Visionari di Repubblica - National Geographic. Un volume con una scelta molto particolare di immagini... I commenti d'autore alle fotografie questa volta sono di Stefano Bartezzaghi. Pubblico un breve estratto dalla mia introduzione.

HCBCover[...] Certo, tornare a guardare, anzi a vedere le trentamila fotografie che Henri Cartier-Bresson ci ha lasciato, a sedici anni dalla sua scomparsa, può essere un esercizio difficile. HCB oggi non si guarda più, si ri-guarda.

Le più note delle sue immagini-icona sono come divi del cinema incontrati per strada, danno il piacere del riconoscimento, non il brivido della scoperta.

Lui stesso, nel 1973, su pressione di collezionisti americani, finì per comporre una summa di 385 fotogrammi, la Master Collection, che può sembrare un rigido canone personale.

Ma ce li lasciò senza un vero filo conduttore, accettando da libertario che ne facessimo libero uso: “Se butti un sasso nel pozzo, non sai quale sarà l’eco”.

Bene, il libro che avete fra le mani ha rinunciato all’ennesima retrospettiva antologica (anche se non vuole privare il lettore di qualche promemoria) per tentare un esperimento, un attraversamento dell’eredità di Cartier-Bresson lungo un sentiero diverso dai soliti.

Vedrete ritratti: ma non è ancora questa la novità. Alcuni ritratti di HCB sono memorabili: Henri Matisse, Truman Capote, i coniugi Curie. Dalla critica sono considerati quasi un genere a parte, un comparto stagno della sua opera. Ne sono stati invece uno dei cardini. Persino il più resistente.

Fotografare volti fu l’eccezione che HCB si concesse dopo aver appeso al chiodo la Leica. Il fatto è che i suoi ritratti, come i suoi paesaggi, mettono a disagio le teorie canoniche della cartierbressonologia: può mai esserci l’“istante decisivo” di un viso umano? Be’, magari sì, “cosa c’è di più fugace dell’espressione su un volto?”.

Ma quando si concentra su un volto, la ricerca dell’attimo diventa per HCB il climax di una relazione umana, non più il bel colpo del cacciatore.

Fare un ritratto significa entrare in contatto con un altro essere umano, consapevole della presenza del fotografo. Il “passo felpato del lupo”, l’invisibilità con cui HCB corteggiava quasi danzando gli oggetti del suo sguardo, durante una sessione di ritratto non valgono più. Entra in gioco l’interazione, e questo cambia tutto. [...]

Ma adesso, sfogliate questa galleria di ritratti. Che non è stata scelta a caso, ma dalla sapienza dei curatori della Fondation Henri Cartier-Bresson. Bene, non saranno gli scambi di sguardi a guidarvi nel viaggio: quasi mai i personaggi guardano dentro l’obiettivo, cioè guardano noi che li guardiamo.

Se avrete la pazienza di rallentare il passo, a condurvi saranno le loro mani. Mani celebri e mani sconosciute, mani di artista e di scrittore, maschili e femminili, mani a riposo e mani al lavoro, mani invadenti, protagoniste, protese e agitate, e mani timide, nascoste, esiliate in una tasca; mani operative, efficienti, mani oziose, dormienti o sveglie, spiritose o imbarazzate, mani che fingono di pensare ad altro, con l’alibi di una sigaretta.

Ma non c’è una singola posa di quelle mani che non sia significante. Che non prenda la parola, assecondando o completando o smascherando la figura a cui appartiene. Sono tutte, anche quelle che non vediamo, mani parlanti, mani dialettiche.

Dipingere le mani, nelle botteghe degli antichi maestri, era l’esame di maturità dell’apprendista promosso ad artista. Le mani erano più difficili perfino dei volti, perché poco individuali, prive di mimica e di espressione, eppure tremendamente eloquenti. [...]

Dietro le quinte dell'Italia guardona

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“Penso che a volte la realtà si vergogni di essere così reale”, dice Gabriele Basilico al collega fotografo spagnolo Ximo Berenguer, che ne conviene.

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Gabriele Basilico, da "Non Recensiti". © Gabriele Basilico / Archivio Gabriele Basilico, Milano

È un incontro speciale, il loro. Entrambi hanno fotografato la stessa cosa, in due paesi diversi.

Ma è una cosa che non si vergognava affatto di essere così reale.

Berenguer lo ha fatto a Barcellona, negli anni del franchismo, Al Molin, un locale notturno di Barcellona dove la moralista censura fascista non arrivava, perché era distratta o non gliene fregava poi tanto: lasciava esistere quell’oasi di trasgressione al regime, poco preoccupante valvola di sfogo.

Basilico, negli stessi anni, s’intrufolava nei locali della periferia milanese, soprattutto il cinema Smeraldo.

Bene, come potrebbe non essere reale tutto questo? Guardiamo le foto.

Niente cani né estranei nei camerini, dice il cartello. Presentarsi mezz'ora prima dello spettacolo, le ritardatarie saranno multate (5.000 lire). E soprattutto: "Le artiste dello strip-tease sono cortesemente pregate di volersi portare avanti, sulla passerella centrale, per l'esecuzione del loro numero scenico".

Ma sì, è quello che sembra: il retropalco di un teatrino di avanspettacolo, negli anni Settanta, prima che quel genere di intrattenimento diciamo ormonale venisse spazzato via definitivamente dai cinema a luci rosse.

Vi state chiedendo cosa ci facesse Basilico fra le spogliarelliste e i barzellettieri. Me lo sono chiesto anche io quando ho avuto in mano questo libro, Non recensiti, splendido titolo, perché è vero, era il genere di spettacoli che non ebbe mai recensioni sui giornali, né se le aspettava, anche se magari in platea qualche critico teatrale ci finiva, però in incognito, diciamo fuori sevizio, mimetizzato fra soldatini di leva arrapati, vecchietti nostalgici, impiegati frustrati e stanchi. Un pubblico che pagava (5 mila lire in platea, 3 mila in galleria) per non lasciare nulla all'immaginazione.

Ora però, perdonatemi, devo spiegare perché quando ho saputo di questo libro mi sono arrabbiato con Giovanna Calvenzi, compagna e collega di Basilico, che lo ha curato.

E perché quando ho visto questo libro le ho perdonato e anzi l’ho ringraziata.

Bisogna sapere che all’inizio di quest’anno Giovanna mi propose di scrivere un testo per un libro su Basilico. Ogni anno la Fiaf dedica un volume a un grande fotografo, è il dono ai soci, e quest’anno era per lui, il grande fotografo dello spazio costruito.

Ma invece di una prevedibile antologia, Giovanna ebbe una idea eccellente: raccontare il Basilico prima di Basilico. Tutto quello che aveva fatto prima dell’80, prima di Ritratti di fabbriche, il libro della sua vocazione e della sua consacrazione. Credo di averne già scritto qui.

Molte cose di quel decennio di prequel erano già venute alla luce dopo la sua scomparsa: i viaggi in Iran, in Marocco, a Glasgow erano già stati pubblicati dalla stessa casa editrice che ora pubblica questo.

Si trattava ora di dare un ordine e un senso a quel materiale, ordinarlo in un percorso, insomma raccontare la genesi di un fotografo.

Bene, lavorandoci mi sono accorto che l’itinerario di Basilico disegnava un percorso che era possibile perfino rappresentare graficamente nella figura di una doppia spirale, le cui linee partono da lontano e precipitano verso un centro da cui, non appena raggiunto, si allontanano con un movimento inverso.

Milano è il centro di quella doppia spirale, che comincia con viaggi lontani, torna verso casa, ne riparte per esplorazioni lontane.

Ma oltre alla spiale geografica ce n’è una che riguarda i contenuti, i soggetti delle sue fotografie.

Per molti anni, diciamo gli anni Settanta, le fotografie di Basilico sono affollate di esseri umani, perché è l’uomo che interessava a Basilico e gli interesserà sempre anche quando, appunto, tornato al centro della spirale, le figure umane quasi scompariranno dalla scena.

Mi sono chiesto a lungo perché questo avvenne, ho anche tentato qualche risposta, con il dubbio che potesse esistere ancora un tassello mancante.

Esisteva, ed era questo. Perciò quando ho saputo che Giovanna aveva ritrovato questo lavoro (perduto per decenni in un anfratto dell’archivio), e non me lo aveva detto, e quindi non era finito in quel libro, be’, ho pensato che peccato, che guaio, forse era proprio quello il tassello che mi serviva.

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Gabriele Basilico, da "Non Recensiti". © Gabriele Basilico / Archivio Gabriele Basilico, Milano

Poi ho visto il libro. E ho capito che questo non è un semplice tassello, che è un’opera, una grande opera inedita, non un ritrovamento di qualche scatto occasionale dimenticato nelle scatole dei provini.

Doveva essere un libro, stava per diventarlo, poi l’editore non si fidò (“ma avete le liberatorie?”, eh sì, buonasera…).

E allora ho capito che questo libro meritava di apparire integralmente, da solo, in tutta la sua eloquenza, perché questo lavoro non è solo una parte importante di quell’itinerario di cui sto per riprendere le fila, ma ha una forza tutta sua.

Collochiamola storicamente allora. Basilico si incuriosisce per il mondo dei night club nel 1976, quando per un servizio commissionato va a rinini a fotografare il Grand Hotel e scopre che nel sotterraneo c’è un antro di trasgressioni più o meno trasgressive, il Lady Godiva.

Chiede di poter fotografare lo spettacolo e sorprendentemente gli dicono di sì. Trova un’atmosfera che lo diverte e lo incuriosisce. Decide, tornato a Milano, di continuare a setacciare quel mondo sotterraneo.

Sono anni molto particolari, per la storia personale e politica di Basilico. Siamo al tramonto delle idealità del ’68 , alla fine degli “anni di desiderio” e a cavallo della amara profetica disperata rottura del ’77, Basilico ha una trentina d’anni e ha ormai deciso che non sarà architetto ma fotografo. Deve solo capire quale fotografo sarà.

È il periodo in cui realizza la sua inchiesta visuale, multimediale, sul proletariato giovanile milanese, di solito definita “parco Lambro” ma molto più estesa di questo. Ma intanto, nel 1978, comincia a fotografare le sue fabbriche disabitate.

Nel giro di un anno quindi si consuma qualcosa, l’obiettivo di Basilico passa dai corpi agli scenari urbani, cosa è successo di preciso?

Ecco, io dopo tutto credo che se è successa qualche cosa, quell’anno, nella mente di Basilico forse è successa anche in quelle sere passate dietro le quinte degli spogliarelli.

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Gabriele Basilico, da "Non Recensiti". © Gabriele Basilico / Archivio Gabriele Basilico, Milano

Una cosa mi colpisce di questa serie. Il pubblico di quegli spettacoli manca quasi completamente dalle fotografie.

Ma in fondo, chi se ne frega della platea. Possiamo immaginarcela benissimo: militari di bassa forza in libera uscita, impiegati stanchi, pensionati nostalgici. È triste quella platea. Ma a Basilico non interessa fare l’analisi della società guardona.

Dietro le quinte, invece! Chi se lo aspettava, c'è un piccolo mondo scherzoso, quasi euforico, cameratesco, divertito, rilassato. Le ragazze vestono con disinvoltura la loro nudità professionale, la vecchia drag queen da un po' di melodramma, i macho men sfoggiano bicipiti modesti, il fantasista si traveste con meticolosità impiegatizia, c'è un'aria da spogliatoio aziendale, da ufficio anagrafe di provincia, piastrelle, termosifone, attaccapanni, qualcuno ha portato dentro la bici, per sicurezza…

Basilico sembra affascinato da questo mondo che lo inghiotte, lo ingloba, lo accoglie con grande, naturale, visibile confidenza, come uno di loro. Si muove dietro il palco.

Nei camerini, in quello spazio dove il glamour molto modesto, l’erotismo delle paillettes, diventa la routine di un mestiere svolto con metodo e abitudine e perfino un po’ di noia.

Le spogliarelliste gironzolano nude ma non sembrano accorgersene, indossano la loro nudità come un costume di scena, infatti passano disinvolte come se fossero vestite fra gli addetti, gli elettricisti, il personale.

E quando posano per il fotografo lo fanno quasi fra virgolette, con complicità e intesa, non ci mettono lo stesso impegno di finzione che useranno sul palco, si vede o ci vedo io una consapevole divertita autoironia, la donna pipistrello, il fantasista, la leopardata con la allusiva comica pompa di benzina – non si prendono sul serio, i loro sorrisi sembrano farsi beffe di chi invece prenderà sul serio quella seduzione da cinquemila lire al biglietto.

È la realtà di una finzione che Basilico si trova a fotografare, e non sbaglia la misura. Una finzione a cui altri crederanno, ma che dietro le quinte diventa un gioco quasi raffinato di meta-teatro.

E qui, colpo di genio: aver coinvolto nel libro Joan Fontcuberta. Che, lo avrete capito, è l’alter ego di Ximo Berenguer, che non esiste (oddio… non dovevo dirlo?), ma forse è esistito, le sue fotografie sicuramente sono esistite, basta, mi fermo qui, il resto scopritelo da soli.

E allora questo libro è qualcosa di diverso da una specie di reportage su un mondo marginale, è un gioco di rovesciamento continuo fra realtà e finzione, che ci dice qualcosa sulla condizione di un’epoca sospesa fra il sogno del benessere e l’imminente crisi degli anni Ottanta, fra sogno, desiderio e disillusione, e su come la fotografia cercò di affrontare quel passaggio.

È una specie di messa in guardia dello spettatore: attento, tu vedi il teatro e sai che è finto, ma quando vedi le fotografie della realtà, be’ devi sapere che anche quella è una recita sociale. Devi aprire bene gli occhi.

Vedete, ci sono registi che preferiscono che il sipario si sollevi sulla scena ancora vuota, senza attori, lasciando che gli spettatori frughino con lo sguardo quel vuoto arredato, analizzandolo, studiandolo, cercando di interpretarlo, di capire cosa vi accadrà fra poco.

Perché poi, quando entrano, gli attori letteralmente rubano la scena, lo sguardo del pubblico ora si concentra su di loro, la scena retrocede letteralmente a sfondo e non viene più vista davvero.

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Gabriele Basilico, da "Non Recensiti". © Gabriele Basilico / Archivio Gabriele Basilico, Milano

Eppure fino a un attimo prima ci sembrava di avere capito che è la scena che contiene gli attori, circoscrive i loro gesti, condiziona le loro azioni e le loro parole, le determina, pone un limite alla loro libertà…

Ecco, credo che nel 1976, mentre Basilico fa questo lavoro strepitoso, cominci a rendersi conto che la presenza dell’uomo è importante, ma anche ingombrante, e che per capire le ragioni della nostra civiltà e delle sue malattie bisogna dire alla gente fatevi da parte un momento, lasciatemi vedere cosa c’è dietro di voi, come è fatta la scena che vi contiene e vi condiziona, ovvero la città costruita: perché forse è così che riuscirò a capire i limiti, le costrizioni, le possibilità, le opportunità della vicenda sociale.

Nei due o tre anni successivi Basilico lavora ancora sulla finzione sociale dei corpi: lo farà con una serie che invece è molto nota, Dancing in Emilia, in cui il suo sguardo diventerà più sarcastico, diciamo che passa da uno sguardo alla Arbus a uno sguardo alla Weegee – con il flash ora più sfacciato nel suo imporre ai soggetti la direzione dello sguardo del fotografo.

Ma di lì a poco Basilico darà l’addio finale ai corpi umani, lo farà con una finzione assoluta, con un grande gioco sarcastico, la sua serie sulle abbronzature, realizzata in realtà in studio con corpi spalmati di bitume: come dire che la finzione sociale è diventata oleosa e scivolosa.

Ancora poco, e lo sguardo di Basilico diverrà nitido e misuratore, in quella mattina di pasqua del 1978 in cui la periferia di Milano deserta e soleggiata gli apparirà come la rivelazione di una verità sulla vita, fino a quel momento nascosta dal brulicare della vita.

E sarà il Basilico che tutti conosciamo e amiamo – ma che non sarebbe esistito senza quel Basilico affollato e divertito che abbiamo ritrovato e abbiamo imparato ad amare.

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Come acquistare la fama con le fotografie

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Fame“Voi fate sogni ambiziosi: successo, fama, ma queste cose costano. Ed è esattamente qui che si comincia a pagare. Con il sudore”.

Così la prof di danza Lydia Grant apostrofava fin dalla sigla iniziale gli studenti della immaginaria scuola d’arte di Fame, in italiano Saranno Famosi, serie cult televisiva degli anni Ottanta.

Non era proprio così. La celebrità si paga, sì, ma con una moneta speciale. Le immagini.

Durante i suoi affollatissimi e oggi leggendari corsi al Collège de France, Michel Foucault non faceva problemi a chi poggiava sulla sua scrivania un microregistratore per catturare il suono della sua voce magistrale; ma si opponeva recisamente a chi voleva fargli una fotografia.

“L'arena in cui si trasmette il pensiero non è dello stesso ordine di quella in cui regna l'immagine”, è la spiegazione di Nathalie Heinich, sociologa dell’arte.

Andava contro il proprio tempo, il grande teorico francese. Ancora di più contro il nostro tempo, in cui è la visibilità del corpo, e non il prestigio della mente, a determinare il grado di notorietà di un personaggio pubblico.

Fate mente locale: di quante celebrità conoscete il nome ma non il volto? Ben poche, penso. La condizione di fama aniconica che apparteneva pressoché a tutti i personaggi storici del passato, prima dell’era della fotografia, oggi è impensabile.

Chi si sottrae al dovere di rendere pubblica la propria immagine (Salinger è il principe di questa sparuta categoria) è classificato con qualche sorriso dio degnazione fra gli originali misantropi, come una eccezione che conferma la regola; oppure come qualcuno che fa di quell’assenza uno strumento a contrario della propria strategia di notorietà (Banksy?).

Le eccezioni più numerose, quelle relative ai sovrani titolari di ius imaginis, ovvero del diritto di tramandare le proprie sembianze ai posteri, sono più apparenti che reali: i ritratti erano più simbolici che somiglianti, sovraccarichi com’erano di segni, emblemi, abiti e pose connotative di uno status immutabile nel tempo e doverosamente identico per tutti.

“La visibilità moderna occupa nella cultura di oggi un posto a omologo a quello dell'idolatria nelle società antiche”, stabilisce Heinich nel suo poderoso trattato De la visibilité, analisi socio-antropo-estetica del “regime di singolarità” che rende alcuni esseri umani riconoscibili da tutti gli altri.

La sua tesi di fondo: che “la celebrità è anzitutto una produzione materiale degli strumenti di diffusione dell'immagine”.

Gattopardescamente, le nuove élite (che appartengano alla politica, allo spettacolo o allo sport, non cambia molto) hanno dovuto adottare gli strumenti mediatici dell’era contemporanea per conservare lo stesso status dei loro predecessori nell’era poco o pseudo iconica.

È un paradosso che fa riflettere. Accolta come il medium della democrazia, dono divino che permetteva anche alla persona più umile di possedere un proprio ritratto, la fotografia ha finito per conservare e anzi potenziare algebricamente la differenza fra chi è qualcuno e chi non è nessuno.

Non è difficile sciogliere la contraddizione. Sì, tutti potevano avere un proprio ritratto, ma in quante copie? Da poche unità a poche decine pèr le persone comuni. Migliaia e migliaia per le persone fuori dal comune.

Già a metà Ottocento il mercato di carte de visite di personaggi famosi era fiorente, remunerativo, produttore di grandi collezioni che già fornivano la base materiale a quella proprietà così impalpabile che è la fama.

La riproducibilità tecnica su grande scala delle immagini e la dissimmetria tra oggetti e soggetti dello sguardo producono enormi differenze nel capitale di visibilità e instaurano una categoria sociale specifica, situata al culmine di una gerarchia profondamente rinnovata dall'irruzione di una nuova élite: ecco i quattro parametri che definiscono la visibilità nell'epoca dei media.

Da quando esiste la fotografia, il nome non basta più: deve essere accompagnato, anzi sovrastato dall’immagine di un volto, di cui diventa la semplice didascalia. Il nome della celebrità viene così declassato a semplice etichetta di un corpo “speciale”.

Ma speciale perché? Questa è la vera grande novità dell’era della riproducibilità tecnica delle immagini dei corpi eccellenti: a un certo punto, quel che era nascosto dietro il mito della virtù individuale diventa esplicito, ovvero che la celebrità non precede l’immagine, ma all’inverso l’immagine è la condizione della celebrità.

Le case cinematografiche facevano stampare milioni di ritratti in cartolina delle proprie star non per saziare un pubblico affamato, ma per stimolarne l’appetito.

Una volta che la fotografia si è appropriata della porta di accesso alla notorietà, non resta insomma altro che adottare strategie di diffusione e messa a frutto dell’immagine nello spazio pubblico che hanno dinamiche molto simili a quelle del marketing e del mercato finanziario.

Il comandamento che sottende queste operazioni è semplice: “Non è il santo che produce l’icona, ma è l’immagine che crea la santità”.

Quello che poteva essere poco evidente nella stairway to heaven dei divi del cinema, di cui pensavamo fosse la bravura a determinare la gloria, diventa lampante con le modelle del glamour e del fashion, puri e semplici corpi che devono la loro notorietà solo alla propria immagine, che sono la propria immagine.

Tant’è vero che quando alcune di loro, le top model anni Ottanta, cominciarono a pretendere di avere anche una voce e una biografia, di diventare corpi reali, furono rapidamente messe da parte dal business della moda.

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Isabelle Huppert (ph: Nicolas Genin, licenza CC, da Wikimedia Commons)

Ancora di più, oggi, il fenomeno è chiaro con l’ascesa dei e soprattutto delle influencer: persone di cui nessuno saprebbe dire quale virtù abbia loro procurato la notorietà, se non la notorietà stessa, acquisita a mezzo di replica insistente in immagine: sono persone, è stato detto, famose per essere famose.

Ora però dobbiamo chiederci quale immenso potere magico abbia la fotografia per realizzare la travolgente metamorfosi del banale in speciale, la forza che trasforma una persona in un personaggio e poi in una personalità.

Be’, non è poi così difficile la risposta. È lo stesso potere che ha garantito alla fotografia una presunzione di veridicità mai intaccata in quasi duecento anni di storia e ancora oggi operativa, a dispetto di qualsiasi dichiarazione di morte della verità.

Ovvero la sensazione, che ha qualche labile fondamento nella procedura tecnica, di un legame speciale fra l’immagine e l’oggetto reale che servì per ottenerla.

Scrive Geoff Dyer, come sempre lucido: “Le star sono un esempio particolare della supposta relazione tra fotografia e referente”.

Sì, le celebrità sono la referenzialità al lavoro. Trasformano una esistenza unica e specifica, un corpo umano, in un’altra esistenza moltiplicabile e scambiabile, la loro replica visuale.

Come una moneta. La celebrità è valuta. Funziona come un deposito di denaro. È un “capitale di visibilità” che può essere accumulato, misurato, contabilizzato (oggi anche in cifre di follower precise fino all’unità); può essere convertibile in altra divisa (un cantante di successo può diventare un attore di successo) e perfino ereditabile (i figli di celebrità hanno molte più chances di diventare a loro volta delle celebrità).

Si tratta, semplicemente, di saper gestire bene l’investimento.

Per prima cosa, occorre produrre azioni solide. Ben fatte, appetibili. Generare una immagine di sé efficiente richiede alla celebrità un impegno e una competenza particolari. Con ironico disincanto, riferisce Heinich, Isabelle Huppert spiegava i comportamenti da tenere sul tappeto rosso di Cannes: “Girare la testa da tutte le parti, senza andare dritta alla destinazione, ma camminando in cerchi concentrici successivi…”.

Una volta prodotto un buon titolo, occorre scegliere le banche giuste, che forniscono i migliori dividenti. A lungo, e in gran parte ancora oggi, la televisione è stata l’investimento più redditizio. La tivù consentiva una inedita familiarità, una intimità mai vista (anche fisica, benché mediata da uno schermo) tra il fan e la star, a cui dal divano si dava del tu e ci si rivolgeva per nome di battesimo.

In questo caso, il meccanismo funzionava esattamente come per le merci: sui banchi del supermercato vediamo spesso le etichette “prodotto visto in televisione”, è pre-visione in immagine che sollecita l’acquisto.

Alla base però resta pur sempre la grande matrice fotografica. È con le immagini fisse (sui rotocalchi, soprattutto) che la ripetizione dell’icona della star batte e ribatte il chiodo fino a piantarlo bene nella mente del consumatore.

La fotografia delle star è diventata un genere fotogiornalistico specifico: il genere people, erede educato, subordinato e contrattato della grande stagione irriverente dei paparazzi.

Oggi, la fotografia tascabile ha prodotto un altro salto di qualità, potentissimo: la fabbricazione tecnologica della relazione personale fra ammiratore ed ammirato.

Pare che le fotografie fatte con cellulare ai concerti, sfocate e quasi illeggibili, siano per i fan una reliquia ben più preziosa del booklet di foto professionali che si può acquistare al botteghino. Ma soprattutto, è stato il selfie con la celebrità che a cambiare radicalmente le cose.

Erede diretto dell’autografo, lo ha immediatamente superato e soppiantato in virtù della maggiore potenza sulla scala della magia: l’autografo è un segno mediato, prodotto dal corpo della celebrità: una sorta di reliquia; ma la foto a braccio teso è il corpo della celebrità di fianco al mio, è la realizzazione di un’unità mistica.

Poco importa che la star si faccia fotografare con calcolata pazienza di fianco a centinaia di altri fan. Il mio selfie è unico, il mio corpo tocca il suo, in quel momento la relazione è sublime ed esclusiva: e oltretutto, a differenza degli stati di estasi mistica, può essere portata a casa e conservata.

C’è un risvolto oscuro (la fotografia ne ha diversi). L’immagine fotografica realizza il paradosso di tenere assieme unicità e moltiplicazione del corpo, inaccessibilità e infinita disponibilità.

A dispetto di Benjamin, ogni fotografia di un oggetto amato conserva una magica aura, che nella definizione del filosofo tedesco è “il manifestarsi di una lontananza, per quanto vicina essa sia”.

Ma la lontananza assoluta, ci mette la pulce nell’orecchio Heinich, che cos’è? È la morte. Le star fotografate sono stelle che brillano non benché, ma proprio perché sono inaccessibili, eppure così vicine.

Affascinati da quella inaccessibilità, i fan desiderano la morte del loro idolo (è la morale laica, ricordare, di Jesus Christ Superstar); inebriati dalla vicinanza, sentono di avere il potere di infliggergliela, la morte.

John Lennon, mite poeta musicista e pacifista, forse fu vittima del sortilegio alino delle immagini che creano e distruggono.





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